Il linguaggio non è mai neutro: può rafforzare stereotipi o diventare strumento di cambiamento. Le donne con disabilità vivono una condizione di doppia discriminazione, spesso invisibile, che colpisce diritti, vita affettiva, maternità e lavoro. Questo approfondimento AIFO mostra come educazione e linguaggio inclusivo possano trasformare la società, promuovendo pari opportunità reali e abbattendo le barriere culturali.
“Parlare non è neutro”, sostiene Irigaray, filosofa femminista. Questa affermazione è vera tanto nella misura in cui noi ci muoviamo in strutture di significato e in griglie semantiche che ci precedono, cristallizzate da una tradizione (spesso portatrice di forti diseguaglianze, patriarcale e sessista), quanto viceversa nella misura in cui noi possiamo, anche attraverso il linguaggio, trasformare e contribuire a creare un mondo nuovo, ossia possiamo “fare cose con le parole”, per citare il titolo dell’opera del filosofo e linguista Austin. Questo è particolarmente importante nel settore educativo, che prepara alla società di domani, dovendosi muovere nelle contraddizioni del presente, in quanto interviene in una fascia d’età cruciale per la formazione della personalità, dell’identità e della modalità di relazione. Il principale obiettivo della scelta metodologica di adottare forme linguistiche che rispecchino la differenza di genere, articolata anche in base ai criteri suggeriti dalle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, è quello di incentivare il rispetto e la valorizzazione delle differenze, con una particolare attenzione alle differenze di genere come chiave di interpretazione della realtà per combattere gli stereotipi e le discriminazioni.
La doppia discriminazione delle donne con disabilità
In particolare, la discriminazione di genere viene moltiplicata quando si associa alla discriminazione legata alla disabilità. Le donne con disabilità sono sottoposte a una doppia discriminazione, e finiscono per essere doppiamente invisibili rispetto a un modello sociale costruito sulla considerazione del maschile come universale neutro, e sul concetto di una presunta normalità escludente, che genera e alimenta il suo opposto, il concetto di diversità.
Le donne disabili sono vittime di una discriminazione multipla, dovuta in primo luogo alla disparità di genere, alla quale si aggiunge il pregiudizio diffuso secondo cui il corpo di una donna disabile non sarebbe né femminile né tantomeno desiderabile. Il risultato di questa discriminazione nella discriminazione è il mancato riconoscimento della titolarità dei diritti sia come donne, che come madri, che come professioniste. La dissuasione dal diventare madre e la mortificazione della sfera della sessualità si accompagnano d’altronde a statistiche gravi sull’incidenza del rischio della violenza a sfondo sessuale, in contesti domestici o istituzionalizzati (ossia laddove esiste una relazione di potere, che si esercita sulla donna disabile), rendendo così la denuncia delle aggressioni molto più difficile.
La maggiore difficoltà risiede nel fatto che, da una parte, le donne con disabilità sono più soggette a un rapporto di dipendenza dagli aguzzini (che coincidono spesso con chi dovrebbe prendersi cura di loro), dall’altra l’accesso alla giustizia è faticoso, perché obbliga a un umiliante iter di accertamento della credibilità e delle capacità di una esatta percezione dell’accaduto (in particolare nei casi di disabilità psichica). Infatti, la Convenzione dell’ONU sui Diritti Umani delle Persone con Disabilità, all’articolo 6, parla esplicitamente di donne e della loro multipla discriminazione, riconoscendole come persone esposte al rischio di maltrattamenti e abusi, e raccomandando agli Stati membri di adottare norme specifiche per questi casi (art. 16).
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La discriminazione delle donne con disabilità in Italia e il ruolo dell’educazione
Essere una donna con disabilità in un Paese come l’Italia non è facile. Gli episodi di discriminazione femminile sul posto di lavoro e nella vita quotidiana sono ancora troppi, tanto da farci figurare negli ultimi posti delle classifiche europee, in merito alla parità di genere. Se si considerano poi le difficoltà oggettive di una società non inclusiva e piena di barriere (non solo architettoniche, ma soprattutto culturali) che le persone con disabilità sono costrette ad affrontare tutti i giorni, la questione si complica ulteriormente.
La relazione educativa è una relazione sessuata, ovvero non si struttura tra individui generici, ma tra persone in carne ed ossa, donne e uomini, che si relazionano con ragazze e ragazzi. Il rischio della neutralità è quello di rendere inconsapevolmente secondari i bisogni delle singole e dei singoli, trasmettere messaggi educativi normalizzanti e omologanti che rispecchiano l’ordine di valori di una società diseguale, non facendosi carico di trasformazioni e complessità delle identità singole e collettive del nostro tempo.
Per questo è necessario progettare interventi educativi in ottica inclusiva, anche della differenza di genere, per promuovere una parità di opportunità concreta, non solo formale, che tenga conto delle differenze e le valorizzi. Partiamo dalle piccole cose per cambiare il mondo.
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Contenuto a cura di Alessandra Spano, dottoressa in Scienze filosofiche, studiosa di Filosofia politica e Storia delle Dottrine politiche, con particolare attenzione alle questioni di genere e studi sul femminismo.
