L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità in Italia è una sfida aperta. Ancora oggi, solo un terzo di coloro che convivono con una disabilità ha un impiego. Nonostante un quadro normativo ampio e solido, fondato sulla legge 68/1999 e la legge 104/1992, sono ancora molte le barriere concreto che impediscono l’occupazione delle persone con disabilità.
Il lavoro non è solo una fonte di reddito, anche se l’aspetto economico è ovviamente fondamentale. Poter lavorare significa accedere a uno degli strumenti più potenti per costruire la propria autonomia, tutelare la propria personalità, partecipare alla vita sociale. Tutti obiettivi che assumono un valore ancora più significativo per le persone con disabilità. Infatti, nel loro caso, accedere a un’occupazione dignitosa rappresenta molto più di un obiettivo individuale: è una questione di diritti, inclusione e giustizia sociale. Perché l’inserimento nel mondo del lavoro consente non solo di contribuire al proprio autosostentamento economico, ma anche di sentirsi parte attiva della comunità, rompendo l’isolamento e contrastando stereotipi e discriminazioni. L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità è strettamente connessa, a doppio filo, ad altre sfide fondamentali come la lotta alla povertà, l’accesso a un’istruzione di qualità, la continuità delle cure sanitarie e la piena partecipazione alla vita civile. Solo una visione integrata può permettere di superare le barriere materiali e culturali che ancora oggi ostacolano il pieno esercizio dei diritti da parte di milioni di cittadini e cittadine con disabilità in tutto il mondo. Un fenomeno con cui purtroppo si devono fare i conti anche in Italia.
Lavoro e disabilità in Italia: i numeri
Secondo i dati dell’Istat, infatti, l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità in Italia presenta ancora notevoli criticità: solo il 32,5% di coloro che sono in età lavorativa convivono con gravi limitazioni ha un impiego, una percentuale che mostra un lieve incremento rispetto al 29,9% registrato nel 2009 ma che parla ancora di un problema molto profondo. Tra l’altro, il dato mostra un divario significativo rispetto alla media nazionale di occupazione calcolata su tutti i cittadini in età da lavoro, che si attesta al 63%. Molto elevata anche la quota delle persone con disabilità che sono attivamente in cerca di occupazione, che si attesta al 20%, oltre il triplo rispetto alla media italiana, che è del 6%.
Ci sono poi segmenti specifici di popolazione che registrano difficoltà di accesso al lavoro ancora maggiori. È il caso delle donne con disabilità, il cui tasso di occupazione è fermo al 26,7%, rispetto al 36,3% degli uomini. Inoltre, il 70% degli inattivi tra le persone con disabilità sono donne. L’età rappresenta poi un ulteriore fattore discriminante. Le persone con disabilità tra i 45 e i 64 anni mostrano un tasso di disoccupazione del 62,2%, spesso a causa di bassi livelli di istruzione e di competenze non aggiornate, che limitano le opportunità di inserimento nel mercato del lavoro.
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Il diritto al lavoro delle persone con disabilità in Italia, tra Costituzione e carte internazionali
Nel complesso, questi dati delineano un quadro preoccupante ed evidenziano la necessità di interventi mirati per promuovere l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità, affrontando le barriere strutturali e culturali che ancora persistono. Uno sforzo finalizzato quindi a garantire davvero e in concreto il diritto al lavoro di chi ha una disabilità, in accordo con quanto previsto dalla Costituzione italiana e dalle Carte internazionali sottoscritte dall’Italia.
D’altra parte, diritto al lavoro per tutte e tutti è un pilastro della Costituzione approvata nel 1948, sancito fin dall’articolo 1, che riconosce l’attività lavorativa come fondamento della Repubblica. Ma è l’articolo 3 a porre le basi per l’uguaglianza sostanziale, impegnando lo Stato a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, inclusi quelli legati alla disabilità. Questo principio è ribadito in modo esplicito dall’articolo 38, che afferma il diritto delle persone con disabilità all’educazione e all’avviamento professionale, nonché a mezzi adeguati al sostentamento e all’inserimento sociale.
Anche il quadro normativo internazionale a cui l’Italia aderisce rafforza questa visione. La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia nel 2009, dedica all’occupazione l’articolo 27, che afferma il diritto delle persone con disabilità di lavorare “su base di uguaglianza con gli altri”. Gli Stati firmatari si impegnano a garantire ambienti lavorativi accessibili e inclusivi, vietando ogni forma di discriminazione, promuovendo l’assunzione nel mercato del lavoro aperto e sostenendo iniziative di imprenditorialità, autoimpiego, inclusione nel settore pubblico e accesso a percorsi formativi adeguati. Accanto alla Convenzione ONU, anche l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha posto l’accento sul diritto al lavoro per le persone con disabilità. In particolare, la Convenzione ILO n. 159 (1983) promuove la riabilitazione professionale e l’occupazione delle persone con disabilità, invitando gli Stati membri a sviluppare politiche e servizi che favoriscano il collocamento mirato e il lavoro in ambienti inclusivi. A sostegno di questo strumento vincolante, la Raccomandazione n. 168 fornisce indicazioni operative per garantire l’uguaglianza di opportunità, l’accesso a una formazione adeguata e il mantenimento del posto di lavoro nel tempo. Infine, è opportuno notare che questi orientamenti sono pienamente coerenti con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, in particolare con il Goal 8, che mira a promuovere un lavoro dignitoso per tutti, e il Goal 10, volto a ridurre le disuguaglianze. Nel complesso, la normativa internazionale suggerisce un importante cambio di paradigma: non è la persona con disabilità a doversi adattare al contesto, ma è il sistema sociale e produttivo che deve farsi accessibile e accogliente. L’inclusione lavorativa è un diritto umano esigibile, che va garantito attraverso politiche attive, risorse adeguate e una cultura del lavoro realmente inclusiva.
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Il quadro normativo sull’inclusione lavorativa delle persone con disabilità
Le enunciazioni di principio, però, devono poi tradursi in un quadro normativo nazionale di dettaglio. In Italia, la normativa principale che disciplina il diritto al lavoro delle persone con disabilità è racchiusa nella Legge n. 68 del 12 marzo 1999, intitolata “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”. Questa legge rappresenta un passaggio fondamentale nel superamento di un approccio assistenzialista, introducendo il principio del collocamento mirato: un sistema di inserimento lavorativo che tiene conto non solo della condizione di disabilità, ma anche delle capacità e competenze individuali della persona, e delle caratteristiche del posto di lavoro. In concreto, la Legge 68/99 prevede per i datori di lavoro, pubblici e privati, l’obbligo di riservare una quota di assunzioni a persone con disabilità:
- il 7% dei lavoratori per le aziende con oltre 50 dipendenti;
- 2 lavoratori per quelle tra 36 e 50;
- 1 lavoratore per le imprese tra 15 e 35 dipendenti.
Il rispetto di queste quote è monitorato e sostenuto dai Centri per l’Impiego e dagli uffici per il collocamento mirato. Tuttavia, nonostante le precise prescrizioni, molte aziende restano inadempienti o si limitano a forme contrattuali marginali e poco inclusive.
Altro testo molto importante è la Legge 104/1992, che rappresenta il riferimento normativo più ampio in tema di assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone con disabilità. In ambito lavorativo, questa legge introduce misure di tutela e agevolazioni specifiche, sia per le persone con disabilità che per i familiari che le assistono. Tra le principali disposizioni figurano il riconoscimento di permessi retribuiti (tre giorni al mese), la possibilità di scelta della sede lavorativa più vicina al domicilio e il diritto a non essere trasferiti senza consenso, salvo casi eccezionali. Si tratta di strumenti pensati per favorire la conciliazione tra lavoro e vita personale e per ridurre il rischio di esclusione dal mercato occupazionale a causa di carichi assistenziali.
Nel tempo, queste tutele si sono dimostrate fondamentali ma non sempre sufficienti a garantire l’effettiva inclusione lavorativa. Per questo, nel 2015 il Decreto Legislativo 151 (attuativo del Jobs Act) è intervenuto per semplificare alcune procedure, rafforzare i controlli e introdurre incentivi per i datori di lavoro che assumono persone con disabilità. In parallelo, il Ministero del Lavoro ha adottato nel 2018 delle Linee guida sul collocamento mirato, in collaborazione con le Regioni, per promuovere un approccio più integrato tra servizi sociali, sanitari e del lavoro, e favorire percorsi personalizzati.
Cosa blocca l’accesso al lavoro per le persone con disabilità
Nonostante i diritti sanciti dalla legge e dalle convenzioni internazionali, i dati elencati sopra dicono che l’accesso al lavoro per le persone con disabilità in Italia è ancora limitato da numerosi ostacoli, spesso intrecciati tra loro. Il primo nodo è rappresentato dalle barriere culturali: pregiudizi, stereotipi e una visione ancora assistenzialista della disabilità condizionano le scelte delle imprese e del mondo del lavoro, che faticano a riconoscere pienamente le competenze e il valore professionale delle persone con disabilità. La mancanza di una cultura inclusiva porta spesso a leggere la disabilità come un problema da gestire, piuttosto che come una risorsa da valorizzare.
A queste si aggiungono le barriere organizzative e ambientali: molte aziende non sono attrezzate per garantire ambienti di lavoro accessibili, strumenti adeguati o flessibilità nei ruoli e negli orari. Questo riguarda non solo le barriere architettoniche, ancora troppo diffuse, ma anche l’assenza di tecnologie assistive, adattamenti posturali, formazione del personale e presenza di figure come il disability manager.
Un altro fattore critico è la discontinuità nei servizi di accompagnamento al lavoro: percorsi di orientamento, inserimento e supporto spesso sono frammentari, sottodimensionati o disomogenei a livello territoriale. La mancata collaborazione tra servizi sociali, sanitari e per l’impiego rende difficile costruire progetti personalizzati e duraturi, capaci di mettere al centro le aspirazioni e le potenzialità della persona.
Non va sottovalutato il peso delle disuguaglianze educative e formative: molte persone con disabilità accedono a livelli più bassi di istruzione, con minori opportunità di specializzazione e aggiornamento professionale. Questo limita fortemente la competitività sul mercato del lavoro e rafforza un circolo vizioso tra esclusione sociale e mancanza di opportunità.
Infine, è importante ricordare il tema della remunerazione e della perdita dell’assegno di pensione l’laddove l’eventuale stipendio lavorativo supera una determinata soglia economica (prevista dall’INPS). Queste restrizioni possono creare un disincentivo al lavoro per le persone con disabilità, poiché un aumento del reddito oltre le soglie stabilite può comportare la perdita delle prestazioni assistenziali. Questo scenario solleva questioni importanti riguardo all’inclusione lavorativa e alla sostenibilità economica per le persone con disabilità.
Affrontare questi blocchi significa intervenire a più livelli, agendo non solo con strumenti normativi ed economici, ma soprattutto con un cambiamento culturale che promuova un’idea di lavoro come spazio di espressione e dignità per tutti.
Come rendere effettivi il diritto al lavoro delle persone con disabilità
L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità resta quindi una delle grandi sfide irrisolte del nostro sistema sociale. Non bastano leggi e obblighi formali: occorre ripensare il modo in cui costruire percorsi professionali accessibili, sostenibili e dignitosi. Questo significa, prima di tutto, riconoscere che lavorare non può diventare un’alternativa alla protezione, ma va reso compatibile con forme di sostegno flessibili, che accompagnino le persone lungo traiettorie di ingresso, uscita o reinserimento nel mondo del lavoro, senza penalizzazioni economiche.
Servono servizi pubblici per l’impiego che non si limitino alla gestione amministrativa del collocamento, ma che siano capaci di fare orientamento vero, di ascoltare i bisogni, progettare soluzioni, costruire ponti con le imprese e seguire i lavoratori nel tempo. Questo è tanto più urgente in un contesto dove il lavoro cambia rapidamente, spesso in modi che rischiano di escludere ancora di più chi è già ai margini. Automazione, digitalizzazione, nuove forme contrattuali: tutto può diventare una barriera o, se governato, un’opportunità.
Un altro punto essenziale è quello della formazione: molte persone con disabilità non hanno accesso a percorsi di istruzione e aggiornamento in linea con le richieste del mercato. Colmare questo divario non significa solo offrire corsi, ma garantire che siano accessibili, adattabili, costruiti sulle reali possibilità e ambizioni dei singoli. La competenza non è un dono, ma una possibilità da rendere concreta per tutti.
In prospettiva, ciò che serve è un cambiamento strutturale: non programmi isolati, ma politiche che integrino la disabilità in ogni ambito – scuola, lavoro, protezione sociale – e lo facciano in modo continuativo, sin dall’infanzia e lungo l’intero arco della vita. È questo il senso del disability mainstreaming: spostare lo sguardo dalla “persona da integrare” al contesto che deve essere progettato per non escludere nessuno. Solo così l’inclusione lavorativa smetterà di essere un’eccezione da premiare e diventerà la regola da garantire.
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Fonti:
- Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità
- Convenzione ILO n. 159
- Raccomandazione ILO n. 168
- Legge 68/1999
- Legge 104/1992
