Nel mondo ricco la mortalità infantile è quasi scomparsa, altrove è ancora una tragedia quotidiana. Il rapporto UN IGME 2024 mostra come milioni di bambini continuino a morire per cause evitabili. Dietro questi numeri ci sono disuguaglianze profonde e diritti non garantiti.
Per chi vive in un paese ad alto reddito, la mortalità infantile è un ricordo distante, confinato alla storia o a scenari lontani. Nascere e sopravvivere ai primi anni di vita è oggi, in molte parti del mondo, un fatto dato per scontato. La disponibilità di cure prenatali, la presenza di personale sanitario qualificato, i vaccini, l’accesso all’acqua potabile: tutto ciò ha reso raro ciò che altrove è ancora quotidiano, cioè l’eventualità che un bambino muoia poco dopo essere nato. In realtà, questa convinzione è frutto di una condizione di privilegio. Ancora oggi, infatti, ogni anno, milioni di bambini muoiono prima di compiere cinque anni, spesso per cause che sarebbero facilmente prevenibili ed evitabili. E il mondo, abituato a pensare alla mortalità infantile come a un problema superato, fatica a vederne l’urgenza e l’ingiustizia. È proprio in questo scarto tra percezione e realtà che si annida una delle sfide più grandi: far capire che il diritto alla vita, nei primi giorni e anni dell’esistenza, non è ancora garantito per tutti.
Mortalità infantile nel mondo, statistiche e mappa delle disuguaglianze
Negli ultimi vent’anni, il mondo ha compiuto importanti progressi nel contrasto alla mortalità infantile, ma il traguardo di porre fine alle morti prevenibili resta ancora distante. Secondo l’ultimo rapporto dell’UN IGME (United Nations Inter-agency Group for Child Mortality Estimation), nel 2023, sono morti circa 4,8 milioni di bambini sotto i cinque anni. Di questi, 2,3 milioni sono deceduti nei primi 28 giorni di vita (periodo neonatale), mentre altri 2,5 milioni sono morti tra 1 e 59 mesi. Si tratta di numeri ancora drammatici, che portano a 170 milioni il totale stimato dei bambini morti prima del quinto compleanno nel periodo 2000–2023. Eppure, il tasso globale di mortalità sotto i cinque anni si è più che dimezzato, passando da 77 a 37 decessi ogni 1.000 nati vivi. Il ritmo dei progressi, però, nel periodo tra il 2015 e il 2023 (in vigenza degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile – SDG) ha subito un brusco rallentamento, quasi un dimezzamento (-42%) rispetto al periodo 2000–2015 (quello degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio). C’è poi da sottolienare che il dato non è omogeneo nelle diverse regioni del mondo. Le disuguaglianze restano profonde: un bambino nato in Africa sub-sahariana ha una probabilità di morire prima dei cinque anni 18 volte superiore rispetto a uno nato in Australia o Nuova Zelanda. In termini assoluti, infatti, l’Africa sub-sahariana registra oltre la metà delle morti infantili globali (56%), pur rappresentando solo il 30% delle nascite. Anche i paesi colpiti da conflitti o fragilità istituzionale sono gravemente penalizzati. Alle discriminazioni economiche e di contesto sociopolitico, se ne sommano poi numerose altre. Il Report delle Nazioni Unite è piuttosto chiaro in merito. Ad esempio, anche l’istruzione materna gioca un ruolo cruciale: i figli di donne con basso livello di istruzione sono esposti a tassi di mortalità significativamente più elevati, perché le loro madri hanno minore accesso a informazioni sanitarie, servizi e supporto. Contano poi anche le dinamiche familiari: i bambini nati da madri giovanissime, con gravidanze ravvicinate o con molti figli, sono statisticamente più vulnerabili. In particolare, i nati da madri sotto i vent’anni o dopo intervalli di nascita inferiori a due anni presentano un rischio maggiore di complicazioni e morte prematura. Queste disuguaglianze dimostrano che la mortalità infantile non è solo un problema sanitario, ma anche una questione di giustizia sociale. Fatto sta che, se le tendenze attuali non cambieranno, entro il 2030, 60 paesi non raggiungeranno l’obiettivo di ridurre la mortalità infantile sotto i 25 decessi per 1.000 nati vivi, e 65 paesi falliranno il target sulla mortalità neonatale (meno di 12 per 1.000). Il bilancio, in questo scenario, sarebbe di 30 milioni di bambini morti entro la fine del decennio. Invece, se tutti gli Stati centrassero gli obiettivi, 8 milioni di vite potrebbero essere salvate.
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Le cause delle morti precoci di bambini
Nel ragionare di obiettivi tanto ambiziosi quanto necessari, però, non si può non partire dalle cause che provocano la mortalità infantile. Si tratta, purtroppo, prevalentemente di cause evitabili con interventi semplici e accessibili. Ed è per questo che i paesi più colpiti dal fenomeno sono quelli con meno risorse economiche, dove anche la sanità di base è un lusso non accessibile a tutti.
Per i bambini, il primo mese di vita resta il più critico. Come detto, infatti, quasi la metà delle morti sotto i cinque anni avviene in questa finestra brevissima, in gran parte a causa di complicazioni legate alla prematurità (37% dei decessi neonatali), all’asfissia o al trauma da parto (24%) e a malformazioni congenite (10%). Altre cause frequenti sono le infezioni come sepsi e polmonite, che richiederebbero cure immediate e specializzate, spesso assenti nei contesti più fragili.
Dopo il primo mese, le minacce cambiano, ma non si attenuano. Tra 1 e 59 mesi, le cause principali di morte sono le infezioni respiratorie (in particolare la polmonite, che da sola rappresenta il 20% dei decessi), la malaria (16%), la diarrea (15%) e, in misura minore, il morbillo, la tubercolosi e le infezioni del sistema nervoso centrale. La malnutrizione, pur non figurando sempre come causa diretta, resta un fattore determinante, perché indebolisce il sistema immunitario e aumenta il rischio di morte in caso di malattia.
Tutti questi decessi, per quanto tragici, non sono inevitabili. Al contrario: la maggior parte potrebbe essere evitata grazie a misure già note ed efficaci, come l’assistenza qualificata al parto, le cure prenatali e postnatali, i vaccini, l’accesso all’acqua sicura, l’uso corretto degli antibiotici, la prevenzione delle gravidanze a rischio e programmi di nutrizione infantile. La vera emergenza, quindi, non è tanto la mancanza di soluzioni, quanto la disuguaglianza nel loro accesso.
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La vita dei bambini nel diritto internazionale: tra CRC e obiettivi di sviluppo sostenibile
Parlare di mortalità infantile significa essenzialmente parlare di diritto alla vita e di diritto alla salute, quest’ultimo riferito non solo ai bambini ma anche alle loro madri. A livello internazionale, nel tempo, si sono stratificati diversi interventi che ribadiscono questi due diritti e si occupano, direttamente o indirettamente, delle morti precoci di bambini nel mondo. I due riferimenti principali sono senza dubbio la Convenzione per i Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, approvata dalle Nazioni Unite nel 1989, è l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, che contiene i già citati Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.
La Convenzione rappresenta il principale strumento giuridicamente vincolante a tutela della vita e della salute dei bambini. L’articolo 6 afferma esplicitamente il diritto inerente alla vita e impegna gli Stati a garantire la sopravvivenza e lo sviluppo di ogni minore. L’articolo 24, invece, riconosce il diritto del bambino al godimento del miglior stato di salute possibile e impone agli Stati di adottare tutte le misure appropriate per ridurre la mortalità infantile, assicurare cure prenatali e postnatali adeguate e facilitare l’accesso ai servizi sanitari. Questo documento, quindi, impone agli Stati non solo di evitare violazioni, ma di agire attivamente per proteggere la vita infantile.
L’Agenda 2030, per parte usa, rappresenta un impegno politico condiviso dagli stati firmatari. L’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 3 punta a garantire salute e benessere per tutti a ogni età e, al suo interno. Il Target 3.2 stabilisce invece due traguardi chiari in materia di mortalità infantile, da raggiungere entro il 2030:
- ridurre la mortalità neonatale sotto i 12 decessi ogni 1.000 nati vivi;
- ridurre la mortalità entro i cinque anni sotto i 25 per 1.000.
Su questa linea si inserisce anche la Global Strategy for Women’s, Children’s and Adolescents’ Health (2016–2030), un quadro di riferimento ambizioso che mira a porre fine a tutte le morti evitabili di madri, neonati e bambini e a promuoverne la salute in senso più ampio. Più recentemente, nel 2024, l’Assemblea Mondiale della Sanità ha anche adottato la Risoluzione 77.5, che sollecita un’accelerazione concreta per il raggiungimento dei target su mortalità materna, neonatale e infantile (MNCH).
Un discorso a parte, poi lo merita la strategia EWENE – Every Woman Every Newborn Everywhere, lanciata dall’OMS, che integra le esperienze maturate nei precedenti piani ENAP (Every Newborn Action Plan) ed EPMM (Ending Preventable Maternal Mortality). Si tratta di un quadro d’azione unificato per la salute materna e per quella neonatale, sostenuto da oltre 25 paesi che hanno già avviato l’implementazione di piani nazionali.
Tra gli elementi centrali di EWENE c’è la definizione di target minimi di copertura sanitaria, racchiusi nella formula 90/90/80/80, che deve essere rispettata sia a livello nazionale che subnazionale:
- 90% delle donne deve accedere ad almeno quattro visite prenatali di qualità (ANC4);
- 90% dei parti deve essere assistito da personale sanitario qualificato (SBA);
- 80% dei neonati deve ricevere cura postnatale precoce entro le prime 48 ore dalla nascita;
- 80% dei distretti locali deve disporre di unità per la cura dei neonati malati o prematuri e di servizi di emergenza ostetrica accessibili ad almeno la metà della popolazione
Questi target sono stati identificati come soglie minime indispensabili per evitare la maggior parte delle morti prevenibili. Raggiungerli significa strutturare servizi accessibili, stabili, continui, equi.
Il piano complessivo, però, non si limita alla quantità. Ci sono infatti anche obiettivi di tipo qualitativo, geografico e politico, tra cui:
- accesso geografico: entro il 2030, almeno il 60% della popolazione mondiale dovrebbe vivere entro due ore da un centro ostetrico d’emergenza funzionante;
- diritto all’autodeterminazione: il 65% delle donne dovrebbe poter decidere autonomamente su uso dei contraccettivi, rapporti sessuali e salute riproduttiva;
- infrastrutture e risorse: i singoli Stati devono dotarsi di standard minimi per le strutture ostetriche d’emergenza (come il numero di ostetriche per turno) e garantire fondi operativi adeguati per il mantenimento in attività dei centri già esistenti.
Inoltre, il piano EWENE si fonda su 10 milestone operative, che rappresentano le aree chiave d’intervento per i sistemi sanitari:
- definizione di politiche nazionali e piani strategici coerenti;
- miglioramento continuo della qualità dell’assistenza;
- equità nell’accesso ai servizi e nei risultati;
- uso dei dati per l’azione, non solo per la rendicontazione;
- investimenti sostenibili a lungo termine;
- potenziamento della forza lavoro sanitaria, con formazione e assunzioni mirate;
- resilienza dei sistemi di fronte a crisi sanitarie, conflitti, disastri ambientali;
- accesso garantito a farmaci e dispositivi essenziali;
- accountability dei governi verso i cittadini e la comunità internazionale;
- promozione di ricerca, innovazione e trasferimento delle conoscenze nella pratica.
Nel loro insieme, tutti questi strumenti, seppur non giuridicamente vincolanti (fatta eccezione per la CRC), rappresentano una forte e netta assunzione di responsabilità internazionale verso milioni di vite di mamme e bambini che dipendono da scelte pubbliche coraggiose e tempestive.
Scopri di progetti di AIFO per la salute materna e infantile
Fonti:
https://www.unicef.org/press-releases/global-child-deaths-reach-historic-low-2022-un-report
